Avevamo tutti sei, sette anni e passavamo le nostre giornate per strada, alla ruga, a giocare dietro un pallone, saltare con un elastico agganciato ai piedi spostandoci quasi esclusivamente in bicicletta. Sono passati trent’anni o poco più e di bambini giocare in giro se ne vedono pochissimi.
Leggi tutto: Tornare alla “ruga”Il concetto stesso della ruga che protegge, controlla, accoglie, mitiga, unisce e crea relazioni come era una volta un po’ una seconda famiglia è sempre più rarefatto. Le cause sono tante: lo spopolamento, il calo delle nascite, ma c’è dell’altro. A leggere il libro “Generazione ansiosa – come i social hanno rovinato i nostri figli” dello psicologo Jonathan Haidt edito da Rizzoli, i motivi sono molteplici e sono facili da intuire. Il libro in pochi mesi è diventato un bestseller mondiale e rappresenta una raccolta di dati e ricerche scientifiche sugli effetti legati all’uso degli smartphone finalmente quantificabili e misurabili su una generazione sempre connessa, che ha praticamente conosciuto solo questa realtà, ossia la Generazione Z, i nati dopo il 1995. Partendo da un’analisi sui fattori essenziali per uno sviluppo sano, Haidt fa risalire la crisi agli anni Novanta.
Fino a quel momento il gioco libero, per strada era la regola, tra bambini di età e di estrazioni diverse e senza la presenza degli adulti, genitori e nonni compresi. Il gioco per strada era una grande scuola di esperienze relazionali e di apprendimento sociale che faceva crescere nell’immediatezza di fare gruppo, gestire conflitti, temprare caratteri e acquisire così quella sicurezza che sembra mancare oggi a bambini e adolescenti. In pochi anni si è assistito da una parte a un’iperprotezione dei figli nei confronti del mondo reale, percepito come non sicuro per una serie di motivi, e dall’altra, nel mondo virtuale, i figli sono spesso lasciati completamente da soli, spesso senza alcun controllo, a navigare per un tempo indefinito (in molti casi per un monte ore equivalente a un lavoro a tempo pieno) in ambienti che online si fanno sempre più complessi. I dati raccolti e riportati nel libro sono davvero impressionanti per mole, e sono impietosi: aumento di stati di ansia, depressione, disturbi dell’attenzione, anoressia, schizofrenia, accessi ospedalieri per atti di autolesionismo, suicidi, e comparando questi dati con quelli relativi ad altre fasce di età, Haidt stabilisce, con la diffusione dello smartphone, non solo delle correlazioni ma dei nessi causali.
Da qui gli appelli di Haidt: dismettere l’uso degli smartphone per bambini e ragazzi almeno fino ai 14 anni, subito, ora; niente social prima dei 16 anni; a scuola senza cellulare, ma soprattutto più gioco senza supervisione e più indipendenza.
Che detto così viene quasi da sorridere, perché come si fa in un mondo perennemente iperconnesso? Da cosa si comincia? Da più parti si inizia a chiedere una regolamentazione da parte del legislatore e delle istituzioni, anche scolastiche, nella consapevolezza che l’azione del singolo non basta e che le aree di intervento sono vaste e sono tante.
Prendere coscienza dei danni e dei rischi a cui sono sottoposti bambini e ragazzi lasciati soli con i loro smartphone, incontrollati a navigare nella rete e nei social network può essere un piccolo, buon inizio. Tornare a giocare per strada e nelle rughe e trascorrere tanti momenti offline, insieme, totalmente disconnessi è importantissimo… e non solo per i piccoli e per i più giovani.
Articolo pubblicato su il Nuovo Corriere della Sila novembre 2024